Cornelio Fabro

 

 

Cornelio Fabro: Maestro ed Amico
Nello Dalle Vedove, C. S. S. (dal sito di Cornelio Fabro)

 

       Il titolo per presentarmi non è tanto quello di confratello di p. Cornelio, quanto l’essere stato, tra gli stimmatini, forse, il più vicino, il più intimo, fin dal 1935. Al mio vivo sentimento di riconoscenza, che ho sempre conservato e che ho ritenuto di esprimergli anche quando sul letto di morte celebrò il suo 60° di Messa, corrispose da parte del p. Fabro nei miei riguardi una specie di vanto, che esternò non solo alla beatificazione e poi alla canonizzazione del Fondatore d. Gaspare Bertoni, di cui ero postulatore, ma anche in tante altre occasioni. Mi considerava, a dirlo ingenuamente, sua creatura. 

       Ma prima di entrare nella fase dei miei contatti diretti, vorrei premettere alcuni cenni biografici del periodo antecedente.

 

Infanzia


       P. Cornelio nacque il 24 agosto 1911 (all’ottavo mese di gravidanza) a Flumignano, paesello lontano 18 chilometri da Udine. Fino al quinto anno fu affetto da impotenza motoria, che gli impedì di parlare e camminare. Si esprimeva a segni, perché sebbene non potesse parlare, riusciva a capire.

       Ad aggravare il suo stato si aggiunse una tremenda anoressia con rifiuto del cibo e pianto continuo. Riusciti vani tutti i tentativi di cura, il p. Guardiano dei Cappuccini ebbe l’ispirazione di inviarlo al Santuario della Madonna delle Grazie in Udine. Appena la madre con slancio di fede posò il figlioletto sull’altare della Vergine, il bambino smise di piangere e fece un ampio sorriso. Era guarito.

       Seguirono gli spaventi e le privazioni della prima guerra mondiale.

       A quattro anni non ancora compiuti è colto da tifo nero e giunge agli estremi. Provvidenzialmente arriva in paese una compagnia di artiglieri con il medico, il quale prepara un infuso e glielo applica. Al mattino il malatino è sfebbrato e fuori pericolo.

       Nell’estate del 1915 è colpito da una dolorosissima mastoidite. Verrà operato nell’ospedale di Udine, dove rimarrà degente fino alla primavera del 1916.

       Impossibilitato a frequentare le elementari, apprende i primi elementi, stando a casa, dal fratello maggiore. Solo in terza riesce ad andare regolarmente alla scuola del paese. Per frequentare la quarta deve portarsi a piedi quotidianamente a Talmassons, e riesce a primeggiare su tutti i suoi compagni.

 

Vocazione religiosa


       Durante una missione gli si consolida la vocazione religiosa già accarezzata da tempo. Il 27 ottobre 1922, saltando la quinta elementare, parte per la Scuola Apostolica Bertoni degli Stimmatini alla SS. Trinità di Verona, dove riceve una formazione solida, austera, come era d'uso in quei tempi. Frequenta le scuole del Ginnasio “Stimmate” e dà gli esami di terza alle Regie Scuole cittadine “Scipione Maffei”, con esito brillante. (Presentando nel programma d'italiano anche i Sepolcri del Foscolo, il professore gli chiese quali tratti sapesse a memoria: “Tutto”, fu la sua risposta. Era di una memoria veramente eccezionale).

Il 1 novembre 1927 entra in noviziato, sotto la guida del supplente padre maestro (non ne aveva l’età, ma faceva tutto lui), d. Paolo Zanini (1901-1970), sacerdote intelligente, volitivo, appassionato dell’ideale bertoniano, che aveva trovato modo di influire spiritualmente anche su alcuni compagni della Cattolica di Milano, tra i quali il futuro cardinal Angelo Dell’Acqua, che gliene serbò sempre gratissima memoria. Negli ultimi due mesi di noviziato padre maestro è d. Emilio Recchia (1888-1969), ben noto a S. Croce, dove sarà parroco per tanti anni e morirà in concetto di santità. Il novizio Fabro prese sul serio l’anno più decisivo della sua vita, abbracciando anche delle personali austerità, che potevano compromettere la sua ammissione alla professione per motivo di scarsa salute.

 

I voti religiosi

 

       Pronunciati i voti religiosi il 2 novembre 1928, inizia la prima Liceo e gli ordinari corsi di filosofia, all’interno della Scuola Apostolica. È rimasta di questo primo anno di professione una sua predica d’esercitazione sul Ven. Bertoni, che svela già nel diciottenne oratore delle capacità riflessive rilevanti. Nel prologo egli dice:

       «Già gli antichi dissero che la specie umana gode di questo vantaggio: fra tutti gli esseri creati corporei essa sola partecipa del lume divino, la sua ragione è qualcosa di divino, ciò che è più divino in tutto il nostro essere. Ora le idee che noi formiamo tendono a manifestarsi non soltanto nel verbo interiore, ma anche nel verbo esterno, nella parola, espressa nelle sue varie forme. Essa manifesta ai nostri simili i frutti più belli della nostra energia, li fa giungere alla loro mente e stabilisce fra noi e gli altri un intimo legame: in essi allora c’è qualcosa di nostro! Per questo noi amiamo immensamente questo dono: ed alla morte di qualche persona cara proviamo uno schianto al cuore, perché essa non potrà più comunicare con noi, non ci parlerà più. O, se i morti potessero parlare!

       «Ed alcuni parlano. Defunctus adhuc loquitur: il linguaggio conciso ed espressivo dell’esempio perdura anche dopo la distruzione organica e supera le barriere della morte; così gli uomini dai grandi esempi parlano sempre alla mente ed al cuore di coloro che portano scritte non su carta corruttibile ma nell’anima il ricordo delle loro virtù.

       «Così anche il nostro ven. Padre. Oggi ci parla... la sua Santità».

       E procede a scrivere, per una decina di pagine di quaderno, il discorso che reciterà il 12 giugno 1929, anniversario della santa morte del Bertoni. Tra gli insegnamenti che dice di cogliere dalla voce del Fondatore v’è quello dell’umile nascondimento, proprio del grillo chiuso nella sua buchetta e tanetta: «Sai -avverte il ven. Padre- il mio spirito, lo spirito che deve pervadere ogni tua azione: Buseta e taneta io diceva e ridiceva. L’amore del nascondimento era in me non solo un amore ma una vera e grande passione d’ogni ora e d’ogni minuto». E’ una caratteristica del Fondatore che sarà ben colta fin da ora da Cornelio Fabro, alieno sempre da esibizionismi.

       Finito con grande plauso la prima liceo, i superiori lo destinano a continuare gli studi a Roma. In agosto si porta presso il santuario mariano di Ortonovo (La Spezia) per completare privatamente gli studi liceali, in un ambiente riposante. Poi all’inizio dell’anno scolastico si porta nella casa romana di S. Agata de’ Goti in Via Mazzarino, sede della Curia Generalizia e del Collegio Internazionale degli Stimmatini.

 

Don Luigi Benedetti


       Trova come prefetto dei chierici un altro candidato degli altari, già suo primo confessore a Verona, il soavissimo e dolcissimo padre Luigi Benedetti (1884-1957). Fu di d. Benedetti l’idea di una rivista in cui i giovani professi potessero esercitare le loro attitudini filosofiche, teologiche o letterarie. «Risfogliarla oggi -scrive il p. Gino Facchin- è piacevole: scrittori dalla penna traballante, umorismo ingenuo, illustrazioni primitive. Eppure fu questa la prima rivista del chierico Cornelio Fabro: un titolo senza dubbio di grande onore per gli umili nostri Echi Romani», che diventeranno ben presto Stigmatina Juventus (N. Dalle Vedove, P. Luigi Benedetti, Roma 1965, 186).

 

Laurea in filosofia
 

       Il p. Fabro dirà, fra l’altro: «Non ho conosciuto nessuno nella Congregazione che tenesse tanto in alto lo studio (...) come p. Benedetti. Ogni piccolo successo dei suoi studenti lo faceva sfavillare di gioia e correva ad informare il p. Generale» (Ib., 187). Ma la scuola migliore del pio padre era, al dire di quei chierici, il suo sacerdozio vissuto.

       P. Cornelio Fabro frequenta l’Università Lateranense e nel 1931, appena ventenne, consegue la laurea in filosofia con la tesi La oggettività del principio di causa e la critica di David Hume.

 

Teologia all'Angelicum
 

       Per lo studio della Teologia passa all’Università di S. Tommaso (Angelicum) e qui si verifica un vero appassionato innamoramento per l’Aquinate. Fin dal primo anno è incaricato di tenere ai suoi compagni di S. Agata il panegirico del santo Dottore. «Fra i vari lati -dice- della grande figura del nostro Santo ve n’è uno che spesso rimane nascosto, ma che per noi è di non poco interesse ed utilità: il suo amore e la sua stima per lo stato religioso; ci limiteremo ai tratti biografici più salienti». Dopo aver messo in rilievo ciò che rapportava il Santo con la vita consacrata, concludeva:

       «Alla vita religiosa il nostro Santo consacrò tutto se stesso in ogni epoca della sua esistenza con le opere e con la scienza: ed è un modello completo di vita religiosa sotto ogni suo aspetto. E’ ammirabile vedere giovani e giovanetti come s. Stanislao, s. Giovanni, s. Luigi entusiasti della loro vita religiosa, ma indubbiamente più ammirabile vedere un uomo che non solo negli anni dell’entusiasmo, ma anche nella matura virilità fra le più sfarzose e oneste lusinghe tenersi santamente ed eroicamente attaccato a questo stato che per Lui appariva come il mezzo più atto a seguire Cristo.

       «Gli insegnamenti quindi del nostro santo Patrono sono eloquenti su questo punto (...)».

       Perciò il giovane Fabro, svelando quali fossero i suoi sentimenti in relazione alla opzione fondamentale della sua stessa vita, esortava:

       «Amore grande quindi a questa vita, alle regole, ai confratelli, ai Superiori: dobbiamo amare tutto quanto come l’ambiente in cui si sviluppa la nostra crescita spirituale, come l’aria che ci tiene in vita, con un amore più nobile e intenso che abbia il soldato per le armi, l’artista per lo strumento, il contadino per l’aratro. Ci traccia il solco per l’eternità la vita religiosa e probabilmente per noi essa sola» (Roma 23.02.1932).

       Il 20 dicembre 1934, al Palazzo della Cancelleria gli viene conferito dalla Pontificia Accademia Romana di S. Tommaso d’Aquino il primo premio nel concorso per una monografia su Il principio di causalità, origine psicologica, formulazione filosofica, valore necessario ed universale. Ne parlò ampiamente LOsservatore Romano nel numero del 22 dicembre.

 

Santa Croce in via Flaminia
 

       L’8 settembre 1934, il Fabro si era trasferito alla casa di S. Croce in via Flaminia, destinato come organista della chiesa. Dal 17 giugno era qui nuovo parroco il suo antico padre maestro dell’ultimo periodo di noviziato d. Emilio Recchia.

 

Ordinazione sacerdotale
 

       Il ritorno a S. Agata si verifica in occasione della sua ordinazione, come si legge ne Il Bertoniano: «Il fatto più saliente, più interessante per la nostra cronaca avvenne il primo mese del periodo (aprile-giugno 1935), il giorno 20 aprile, sabato santo, con l’ordinazione sacerdotale (in S. Giovanni in Laterano) del nostro d. Cornelio Fabro appartenente allora nuovamente di diritto e di fatto alla casa di S. Agata. Fatto che portò tanta gioia e festa a tutti specialmente ai compagni Studenti» (nº 3, 15 sett. 1935, 95). Per l’ordinazione era stata ottenuta la dispensa di cinque mesi dall’età canonica.

       La prima Messa solenne la celebrò al paese solo il 29 giugno, festa dei SS. Pietro e Paolo, rivedendo per la prima volta il suo nativo Flumignano dopo tredici anni di assenza.

 

Licenza in teologia

 

       Rientrato a Roma si licenziò, il 7 luglio, in teologia a pieni voti (summa cum laude).

       Durante l’estate si portò col prof. Giuseppe Reverberi, già suo insegnante al Laterano, alla Stazione zoologica di Napoli per lo studio dei problemi fondamentali e degli stretti rapporti fra biologia e filosofia.

       Nel 1935-36 figurerà iscritto al secondo corso di Scienze Naturali all’Università di Padova, e nel 1937-38 al terzo anno in quella di Roma.

 

A Verona
 

       A metà ottobre 1935 p. Fabro è a Verona per iniziare l’insegnamento della filosofia ai chierici dell’Istituto stimmatino. La Scuola Apostolica Bertoni era allora nel massimo suo fiore. Io, entrato da sette anni, non avevo mai avuto alcun contatto col p. Cornelio, perché la prima ginnasio ero salito a farla a Trento, e quando l’anno seguente tornai a Verona, egli era già partito per Roma. Sentivo, però, che tutti ne parlavano come di un talento eccezionale e se ne mostravano fieri. Si può immaginare perciò l’entusiasmo mio e dei miei compagni nell’accoglierlo a Verona, dove veniva ad inaugurare il suo curriculum d’insegnante.

       Io mi trovavo al secondo anno di liceo, ma per i corsi di filosofia (Cosmologia e Psicologia, in quell’anno) tutte le tre classi si riunivano in una sola, attorno alla cattedra di p. Cornelio. Al giovedì, giorno di vacanza, egli teneva lezioni di storia della filosofia, alle quali intervenivano liberamente anche molti teologi. Tracciava più che altro dei medaglioni sui filosofi principali. C’è chi ricorda ancora la magistrale trattazione su s. Agostino.

 

Sotto il suo insegnamento
 

       La mia prima impressione fu folgorante. La scuola non era più la pedissequa lettura ed esposizione di un testo scolastico, per di più, in latino (fino allora il Farges-Barbedette), ma uno svolgimento originale, vivo e coinvolgente, in lingua italiana, dei vari problemi suscitati dal trattato della Cosmologia, prima, e poi, nel secondo semestre, della Psicologia, alla luce dei principi di s. Tommaso, con i suoi più accreditati commentatori e con aggiornamenti che arrivavano fino all’ultimissima produzione in campo filosofico e scientifico. Le lezioni potevano dirsi a livello universitario, ma dei più alti. E come nelle Università, il professore ci consegnava il distillato dei suoi studi in dispense, che facevano gola anche in Seminario, dove era insegnante il fratello sacerdote del nostro chierico Scatolini.

       L’impegno del p. Cornelio era constatabile anche al solo mettere piede nella sua camera, dove pareva seppellito dai suoi libri. Oltre a quelli che aveva portato con sé da Roma, un buon numero glielo forniva la biblioteca della Scuola Apostolica, poi quella della casa madre delle Stimmate, dove il Fondatore aveva allestito una delle librerie più preziose della città. Ma non contento di questo, ricordo che si fece venire, per esempio, dalla nostra casa di Parma, i volumi del Gaetano. Naturalmente si faceva aiutare da qualcuno di noi quando doveva poi arrivare in classe con un peso enorme.

       Faceva impressione la sua assiduità nell’applicazione allo studio. Sembra incredibile, ma in quel primo anno io non l’ho mai visto prendersi uno svago, con un passeggio o un po’ di sport. Avevamo un vasto orto con ampi cortili, alla SS. Trinità. Mai che p. Fabro scendesse una volta per prendere una boccata d’aria lungo i viali o a trattenersi in ricreazione con gli studenti. Così che quando alla fine dell’anno scolastico lo vidi finalmente giù nel nostro orto ebbi l’impressione come di una cosa strana.

       L’unico suo diversivo era quello che si prendeva nell’andare ad assistere le orfanelle di Via Carlo Montanari, nella casa retta dalle Salesiane: qui celebrava la Messa, faceva il catechismo, confessava, faceva insomma da cappellano, ma con uno zelo e con un amore, una dedizione davvero straordinari. Ci fu, fra quelle animucce, chi ha approfittato della scuola di tanto Padre per maturarsi bene e avviarsi su una via di totale consacrazione. Almeno con una, che divenne un pezzo grosso di un grande Istituto, d. Cornelio rimase in relazione fino alla fine della sua vita.

       Ma torniamo alla scuola. Qui dobbiamo dire che p. Cornelio, essendo anche prefetto degli studi, ebbe buon gioco nel far trionfare i suoi punti di vista, anche quando evidentemente, facendo la parte del leone, assicurava alla filosofia quella prevalenza sulle altre materie, che nessuno prima s’era mai sognato di fare. Riuscì, per esempio, ad ottenere che gli esami interni delle varie materie, contro il nostro uso, venissero fatti alla fine della terza liceo, come nelle scuole pubbliche, e che solo per la filosofia l’esame fosse annuale. Così la immediata preoccupazione degli studenti rimaneva quella dello studio della filosofia.

 

Il mio personale rapporto con p. Fabro
 

       In quanto al mio personale rapporto con p. Fabro devo confessare che a mano a mano che l’anno scolastico avanzava, sempre più mi convincevo della fortuna che m’era toccata di essere alla scuola di un genio e mi sentivo come trascinato dalla sua parola e dal suo metodo in modo da scoprirmi totalmente trasformato. Il p. Fabro se ne accorse e quando alla fine dell’anno si venne alla selezione di tre soggetti da inviare a studiare a Roma, egli presentò anche il mio nome. Incontrò l’opposizione del consiglio di casa. Ma il p. Fabro con la forza anche della sua carica di prefetto replicò: «o con questo o nessuno dei tre». La spuntò e così venni incluso nella triade. Fui poi l’unico a raggiungere la meta, per grazia di Dio, certo. E il p. Fabro, ogni tanto, si compiaceva d’essere stato lui ad imprimere questa svolta nella mia vita e a considerarmi come sua creatura. Ma quando pareva tutto combinato, c’era da fare ancora i calcoli con qualcos’altro. Salito alla villa di Sezano il 1 luglio, al mattino seguente, per un banale incidente (l’errore nella somministrazione di una medicina), fui agli estremi. P. Fabro, addoloratissimo, rimandò la sua partenza per la Stazione zoologica di Napoli, e salì in serata a visitarmi. Ero ormai fuori pericolo, mi benedisse e mi diede l’appuntamento per Roma, dove anch’egli era destinato per conseguire la laurea in Teologia.

       All’inizio dell’anno scolastico 1936-37 mi trovai dunque a S. Agata con p. Fabro, il quale non solo frequentava il quinto anno di Teologia all’Angelicum, ma faceva da assistente del prof. Reverberi nell’insegnamento di psicologia sperimentale e biologia al Seminario Romano. Contemporaneamente si dedicava alla stesura della tesi sul principio di partecipazione secondo s. Tommaso d’Aquino.

       Non era più mio insegnante, come a Verona, ma in ogni mio problema ricorrevo da lui non solo per quanto si riferiva allo studio, ma anche alla vita dello spirito, scegliendomelo come confessore e padre spirituale. Fu quindi per sei anni guida saggia e amorosa che mi accompagnò nella mia ascesa al sacerdozio. Lo trovai settimanalmente, e anche più spesso, sempre accogliente, comunicativo, stimolante. Mi portava come per mano non solo a contatto dei grandi pensatori ch’egli stava studiando, ma anche dei Santi di cui era più invaghito. Dopo la Madonna, s. Agostino, s. Bernardo, santa Caterina da Siena, santa Gemma Galgani e così via.

       Ho potuto seguirlo nelle varie fasi della sua preparazione della tesi di laurea e il 30 ottobre 1937 ho assistito alla sua difesa, in cui conseguì summa cum laude. In una confidenza fattami posteriormente mi faceva intendere che nello scrivere sulla partecipazione si era sentito così assorbito da non avvertire quasi la parte sensibile del suo essere.

       L’ho seguito anche nella sua pubblicistica, collaborando spesso alla correzione delle bozze, e ricevendone poi copia con dedica.

       Fin dal 1935 sul Bollettino Filosofico dell’Ateneo Lateranense (nº 1, 45-55) aveva pubblicato il suo primo articolo: Avicenna e la conoscenza divina dei particolari. Nel 1936 sulla Rivista di filosofia neoscolastica (nº 2, 101-141) il suo studio: La difesa critica del principio di causa, che ebbe la recensione di L. B. Geiger sul Bulletin Thomiste (gennaio-marzo 1938, 401). Il dotto domenicano concludeva che le righe del p. Fabro «portent la marque d’un esprit philosophique authentique». Ma siamo appena agli albori.

        Nel 1938 viene nominato Professore Incaricato della Cattedra di Biologia anche nel Pontificio Ateneo Urbano di Propaganda Fide.

       Nel 1939 esce la sua tesi di laurea: La nozione metafisica di partecipazione secondo san Tommaso dAquino - Saggio dintroduzione analitica al pensiero tomista, Milano, «Vita e Pensiero». Mons. Olgiati congratulandosi con l’autore definì l’opera «un lavoro splendido». E mons. Martino Grabmann di Monaco scriveva a p. Fabro: «Già da una prima ripassata mi convinsi della vostra straordinaria familiarità coi testi di san Tommaso da tutte le sue opere ed in ispecie dai commenti su Aristotele. Mi rallegro poi dell’eccellente maniera con cui nella vostra opera sapete unire la profondità della speculazione con una esatta metodica trattazione storica» (Il Bertoniano, nº 2, 1 giugno 1939, 288). Dalla S.E.I. ne fu fatta una 2a edizione nel 1950 e una 3a nel 1963; non è poco per un’opera filosofica. Con una certa soddisfazione mi confidava negli ultimi anni d’aver ricevuto una telefonata da Napoli: un professore di quella Università intendeva congratularsi col p. Fabro per l’opera sulla partecipazione, che stava studiando con vivo entusiasmo, rimase al telefono per una buona mezz’ora definendo quella del Fabro «l’opera del secolo».

 

L'oratore
 

       Intanto il p. Fabro si afferma anche come buon oratore e viene richiesto da varie parti. In occasione del 50° di Messa dell’ex Superiore Generale degli Stimmatini, p. Giovanni Battista Tomasi, fu p. Cornelio a tessergli il discorso gratulatorio nella Messa celebrata solennemente a Sant’Agata. Il suo fu «un dotto ed elevatissimo discorso sul Sacerdote e sulla sua alta missione spirituale, tracciando con profondo pensiero teologico la lotta che il Sacerdote deve condurre in se stesso e contro i nemici del bene, per poter compiere la sua divina missione di legato di Cristo. Disse brevemente del compito che spetta al sacerdote, quando membro di una famiglia religiosa è chiamato a reggerne le sorti e con evidente allusione al p. Tomasi, che della Congregazione dei Padri Stimmatini fu superiore generale per 11 anni, disse come il superiore possa e debba continuare in ciascuna famiglia religiosa, lo spirito del Fondatore. Concluse affermando che il padre Tomasi era giustamente onorato perché, e del sacerdote e del religioso, egli era vero modello» (Il Bertoniano, l, 15 marzo 1940, 14).

 

L'insegnante
 

       Tralascio di accennare a tutte le promozioni e incarichi d’insegnamento, che lo portano ben presto alla cattedra di metafisica sia al Laterano che a Propaganda Fide. Non posso invece omettere di accennare al suo ministero presso le Pallottine di Via S. Agata de’ Goti. La Pia Casa, fondata da s. Vincenzo Pallotti, accoglieva una schiera di bambine in difficoltà per famiglie dissestate economicamente o moralmente. Egli continuò quella cura premurosa che aveva già dimostrato nell’orfanatrofio di Verona. Era facile accorgersi che quelle creature sfortunate erano divenute tutte il suo pensiero, il suo amore e anche la sua delizia. Si sono verificati anche dei casi inspiegabili, sorprendenti, come quando un giorno al termine della Messa confidò alla ragazza che fungeva da sacrestana: «Guarda che durante la celebrazione ho avuto una luce tutta particolare sul tuo avvenire». E quella figliuola che non aveva mai pensato alla sua vocazione, diverrà suora pallottina, e sarà sostenuta, difesa e incoraggiata da p. Fabro, che la allieterà anche in seguito delle sue visite e dei suoi scritti. Il 18 gennaio 1948 le scriveva: «Sono molto contento, dopo quasi 8 anni di lavoro alla Pia Casa d’aver visto un’alunna entrare fra le Figlie del Pallotti. Spero che sia seguita da una schiera di compagne (...) Devo ringraziarla in modo particolare dell’augurio che mi rivolge di farmi santo: io spero ch’Ella mi vorrà assistere con la sua preghiera a placare la divina giustizia che certamente dev’essere sdegnata con me per aver fatto così poco e cattivo uso di tante, quasi infinite grazie concessemi in questi 12 anni del mio sacerdozio. Chissà come me la passerò al tribunale di Dio: quando penso che il ven. Pallotti si chiamava “gran peccatore” e indicava se stesso come “un peccatore che brama convertirsi” mi vengono i brividi» (Lettere, nº 1308).

       «Oggi -le scriveva il 24 agosto 1948- compio 37 anni, con 13 di sacerdozio, e mi pare di non aver fatto nulla per la s. Chiesa e per le anime: eppure sento un desiderio immenso di correre in loro aiuto. Magari potessi darmi al ministero attivo, e lasciare questi libri: non voglio per altro che la Santissima Volontà di Dio».

       Anche con me ribadiva il punto della necessità per il sacerdote di una gran santità. «Il fine principale della Congregazione -diceva- è quello della santificazione degli individui. Quando una Congregazione è riuscita a fare un santo, ha fatto un’opera grandissima. La fondazione di tante case e parrocchie in confronto di questa è un niente» (4 nov. 1939).

       Il 7 luglio 1941 mi portavo ai SS. Giovanni e Paolo per iniziare gli esercizi in preparazione all’ordinazione. Ero sconvolto dalla notizia avuta in giornata della defezione di un sacerdote che mi era carissimo. P. Cornelio è salito in settimana fino al convento dei Passionisti del Celio per confortarmi. Poi alla mia prima Messa, detta privatamente su un altare laterale di S. Agata, volle accompagnarmi gentilmente con il suono dell’organo.

       Finii la teologia con la licenza nel 1942 e mi portai a Verona per insegnare un po’ di filosofia alla Scuola Apostolica. Finiti gli anni duri della guerra, il p. Giuseppe Stofella che a S. Agata era arrivato al culmine dei suoi lavori storici per la Causa di Beatificazione del ven. Gaspare Bertoni, chiese ai Superiori che io gli venissi concesso in aiuto. Perciò nell’ottobre del 1945 mi trovai di nuovo a Roma.

       Per far intendere chi fosse p. Stofella, a cui venivo assegnato, ricorro ad uno scritto posteriore dello stesso p. Cornelio, redatto nel 1989 in occasione della Canonizzazione del Beato Bertoni.

       «L’imminente canonizzazione del nostro amato Fondatore mi richiama -dice il p. Fabro- la figura di p. Giuseppe Stofella al quale si deve il passo decisivo, rappresentato dal Summarium additionale della Positio super virtutibus. Un profondo senso della realtà storica, una convinzione profonda della santità del Bertoni con la coscienza critica della mentalità dell’Ottocento, tempo di rivoluzioni per tutta l’Europa, con un eccezionale fiuto dei documenti, lo misero sulla via giusta, la quale, continuata con altrettanto ardore dal p. Dalle Vedove, lo fa il protagonista indiscutibile della conclusione che ha portato alla Canonizzazione.

       Negli anni più fervidi del suo lavoro, presso la Curia Generale, egli passava ogni mattina a darmi un fraterno saluto e ad informarmi dei progressi del suo lavoro: appena faceva qualche colpo grosso [ritrovamento di documenti] passava subito nella mia camera a darmi la comunicazione. Altissimo ingegno musicale e poetico, egli sprofondava nell’interpretazione del documento e tesseva con facilità la costellazione storica della realtà ivi indicata. L’indifferenza dell’ambiente con le sue idee storte non lo scoraggiò mai ed era felice quando qualche stimmatino giovane si metteva dalla sua parte; egli soffrì molto per le incomprensioni (...) gli bastò l’incoraggiamento del Card. Ferdinando Antonelli [allora Relatore Generale della Sezione Storica della Congr. delle Cause dei Santi], che lo scoprì e lo protesse. Posso dire, come testimone diretto, l’impressione di gioia e di sicurezza che l’accompagnarono fino alla fine: il premio venne presto con l’assunzione di un discepolo di pari energia e fiducia (...)» (Comunità Stimmatina, nº 9, aprile-sett. 1989).

       Da queste righe si può comprendere quale guadagno io avessi fatto col dover ritornare a S. Agata. Venivo a trovarmi al fianco di due sommi: p. Stofella e p. Fabro. Mi venne concesso anche di completare i corsi di Teologia all’Angelicum per il dottorato, pur dovendo rimandare ad altro tempo la stesura della tesi. E intanto mi toccava anche un altro grande onore, quello di essere condiscepolo del futuro Papa Giovanni Paolo II.

       Il p. Alfredo Balestrazzi che era stato al fianco del celebre p. Riccardo Tabarelli (+ 1909), professore di teologia all’Apollinare, ch’ebbe l’onore di conferire la laurea a Pio XII, a Giovanni XXIII, e a diversi cardinali, mi confidava che il p. Fabro, sebbene così giovane, aveva già superato quella nostra antica gloria, per la vastità e profondità dei suoi studi e delle sue pubblicazioni.

 

Direttore della Comunità di Santa Croce
 

       Nell’estate del 1947 ritornai a Verona e non mantenni che corrispondenza epistolare col p. Fabro e qualche incontro fugace, come in occasione della difesa della mia tesi di laurea all’Angelicum nel 1950. Ma il p. Fabro dall’8 agosto 1949 era passato direttore della Comunità di Santa Croce al Flaminio, composta da undici sacerdoti e tre fratelli laici, che avevano in cura la grossa parrocchia (circa 40 mila anime) retta ancora dal santo d. Emilio Recchia. Per alleggerirgli il compito di direttore e poter attendere agli studi furono concessi ampi poteri al padre vicario.

       Il 22 ottobre 1949 scrive ad una sua figlia spirituale: «I Superiori mi hanno fatto Direttore di questa Casa che ha la cura spirituale di una delle più grandi Parrocchie di Roma. Insieme continuo la scuola di filosofia a Propaganda Fide e a novembre comincerò un Corso di filosofia anche all’Università di Roma avendo vinto, primo in classifica, il Concorso del Ministero dell’Istruzione. Per questo ho grande bisogno di preghiere onde il Signore mi aiuti a difendere la Sua Verità e mi dia un po’ di forze fra tanti guai» (a Sr. Agata delle Pallottine).

       Il 13 dicembre 1950, p. Fabro «tiene la sua prima lezione come Libero Docente all’Università di Roma. Contro ogni aspettativa e ogni tentativo poco simpatico -si legge nella cronaca della casa- sono ad ascoltarlo un bel numero di uditori che rimangono pienamente soddisfatti e ammirati del suo sapere» (Il Bertoniano, nº 1, 1950, 165). È cosa ardua ora seguirlo in tutti i suoi impegni e viaggi, anche all’estero, in Argentina e Cile, per Congressi di filosofia. Ovunque è richiesto e accolto con grande stima.

       Nel 1954 è vincitore della Cattedra di Filosofia teoretica presso l’Università di Napoli e diventa Straordinario di Filosofia teoretica e direttore dell’istituto Universitario di Magistero «Maria SS. Assunta» di Roma. Più volte mi ha ripetuto la sua soddisfazione per questo successo, perché, mi diceva, dall’unificazione d’Italia nessun sacerdote aveva conseguito una cattedra di Filosofia teoretica. Egli era il primo.

       Nel 1956 si porta a Milano, con ben 68 casse di libri, per insegnare all’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove è promosso Professore Ordinario di Ruolo (1957).

       Nel 1958 rientra a Roma. Nella Cronaca di S. Croce si legge: «Arriva p. Fabro che riprende l’insegnamento lasciato due anni fa al Maria Assunta; anche in parrocchia il suo alto Ministero farà tanto del bene» (Il Bertoniano, nº 3, 1958, 91).

       Nel 1958 fui nominato Postulatore generale e scesi a Roma a S. Agata. Ogni domenica mi portavo a S. Croce per svolgere il mio ministero e così potevo settimanalmente incontrarmi col p. Fabro.

       Nel 1959 fui impegnato con lui per le celebrazioni cinquantenarie della morte del p. Riccardo Tabarelli, del quale io curai la parte storica e il p. Fabro quella scientifica (cf. Il Bertoniano, nº 4, 1959, 383-411). Per sollecitazione poi di mons. Antonio Piolanti il p. Cornelio si prese cura della stampa dell’Opera omnia del p. Tabarelli e così la mia collaborazione si protrasse per anni. Il Sommo Pontefice Giovanni XXIII, ammirato discepolo del padre stimmatino, alla pubblicazione del primo volume De Deo Uno (Roma 1962) ebbe la degnazione di inviare una sua lettera di congratulazione al Rettore della Pontificia Università Lateranense, che aveva promosso l’impresa, dicendo: «suave est meminisse Nos, adulescentia florentibus annis, in Pontificio Seminario Romano eum [p. Tabarelli] audivisse, magistrum sincera pietate sanaque doctrina eximium, ubertate et copia scientiae spectabilem».

       La vigilia del Natale 1967 mi trasferii a S. Croce dove rimasi fino al 19 settembre 1995. Potei essere al fianco del p. Fabro ininterrottamente per 28 anni, fino alla sua morte.

 

Zelo apostolico
 

       Posso dire del suo zelo apostolico in modo superlativo. Il suo confessionale, che era accanto al mio, lo vedevo sempre affollato di fedeli per tutta la mattina delle domeniche e feste. Alla ore 12 usciva per celebrare la S. Messa, con quelle famose omelie, che venivano ascoltate da una folla strabocchevole. Giungevano anche da fuori per sentirlo, come casualmente udii un giorno da un monsignore romano, il quale non aveva voluto mancare a questi appuntamenti domenicali. Puntuale con la sua famiglia capitava pure l’on. prof. Gabriele De Rosa, che poi s’intratteneva cordialmente col Padre. Non posso omettere le sue conferenze nella sala Costantiniana, dove il concorso era così grande da rendere insufficiente l’ambiente, gli uditori, specialmente giovani universitari, si stipavano sul corridoio e fin sulle scale. Non parlo poi delle persone di tutti i ranghi che lo venivano a consultare, verso tutti si mostrava disponibile al limite del suo tempo, perché l’insegnamento all’Università di Perugia e la sua produzione filosofica lo assorbivano immensamente.

       Nel primo pomeriggio, qui a Santa Croce, si sbizzariva con un po’ di sport scendendo in campo per qualche partita di calcio coi giovani.

       Per la teologia erano anni di fuoco. P. Fabro non mollava sui principi. Io sentivo i suoi sfoghi appassionati. Ricordo che più di una volta feci pressione perché intervenisse. Ero convinto che le sue qualità insuperabili di polemista dovevano essere messe a servizio della Chiesa, per il trionfo della verità. Forse qualche asprezza gli è sfuggita, ma la limpidezza dei suoi intenti gli fa gran merito, perché mai ha inseguito facili consensi o vani applausi. E la sua coerenza l’ha mantenuta fino all’ultimo sulla linea dell’umilissimo Bertoni, nonostante non disconoscesse i talenti che Dio aveva deposto in lui.

 

Negli ultimi anni
 

       In uno degli ultimi anni (1990 o 91) racconta p. Alessio De Marchi ex-provinciale: «Dopo un Ritiro intercomunitario degli Stimmatini consumammo in famiglia il pranzo sociale. E p. Fabro si collocò a tavola alla mia destra. A un certo punto gli dissi: “Padre, la fatica a Perugia sta per finire. Ha tanto scritto, pubblicato; è stato qualificato Educatore di tanti giovani nella sua brillante carriera, che sentimenti prova, adesso, prossimo a lasciare?”. Mi rispose: “Mi sento poca cosa. Se tu credessi... ma io provo molta più stima per molti di voi, che avete occupato dei posti di ministero, di comando, di missione, di fondazione di nuove opere... Credimi, sono sincero...”. Rimasi “sbalordito”. M’è sembrata una risposta degna di un “Grande”. Commovente risposta, perché “umile”».

       Posso aggiungere quanto mi raccontò il p. Pietro Bortignon, fratello del vescovo di Padova, uomo di grande semplicità e di intensa preghiera. Era stato grande apostolo dei giovani proprio qui a S. Croce, ma trovava sempre i suoi spazi di prolungata orazione, fino ad esprimersi chiaramente, quando qualche rara volta si era trattenuto in conversazione un po’ prolungata: «Devo ritirarmi, perché mi sono troppo divagato». «E non credere -mi disse un giorno- che il mio modo di fare non sia apprezzato anche dai grandi. Un giorno ero tutto assorto in preghiera in S. Croce, e ad un certo momento, passando padre Cornelio, si è chinato su di me e mi ha sussurrato all’orecchio: “Ti invidio!”».

       Il 29 agosto 1984, da Villa Cabrini di Rieti, dove era in riposo, mi indirizzò una lettera, con entro un’immagine di santa Gemma Galgani e reliquia. Merita di essere conosciuta a conclusione di questo mio povero intervento.

«Caro D. Nello,

       questa è per te con una fervida richiesta della tua carità che ti prego di usarmi in punto di morte che mi sembra non dev’essere ormai lontana: in queste due settimane, in questa Casa religiosa in completo isolamento, ho potuto raccogliermi e preparare l’anima nell’impetrare la divina misericordia. Ora tutto mi abbandono alla sua Volontà.

       1. Ho seguito come guida in questi giorni il libretto di Hieremias Drexel di cui feci cenno a tavola prima di venire a Rieti: Mortis nuntius. A Roma lo tengo da anni sempre sul tavolo: prendilo in mano e cerca di seguirlo, se avrò un’agonia, per confortare la mia anima.

       2. Possibilmente metti a capo del letto il Crocifisso di ebano nero, l’Annunziata del Beato Angelico e mettimi nella mano il rosario di grani di legno che sta attorcigliato al Crocifisso del tavolo di studio.

       3. Ho pregato e continuo a pregare per te e per il tuo lavoro, sia per la Canonizzazione del Beato Fondatore, sia per la difesa e diffusione del suo autentico spirito: non scoraggiarti, né perdere la pace per le contraddizioni e le incomprensioni. Mettiamo tutto nelle mani di Dio. Anche la Santa Cabrini raccomandava molto lo spirito del S. Abbandono.

       Ringrazia per me il Signore per gli aiuti continui e potenti coi quali ha illuminato, quasi passo per passo il lavoro di ricerca e difesa della verità con un’opportunità e delicatezza infinita. Troverai qualche appunto su questo in un’Agenda (Banco Agricolo Milanese 1979). Di questa mia lettera e del suo contenuto non parlare a nessuno, neanche a me, prima della mia morte.

       Intanto ti ringrazio in anticipo per l’atto di carità che ti chiedo e che cercherò di ricambiarti quando sarò con Dio.

       Tuo P. C. Fabro».

       Negli ultimi tempi, quando era immobilizzato sulla carrozzella, gli dicevo: «Padre, adesso è il tempo delle virtù eroiche». Sorrideva e continuava silenziosamente la sua offerta in abbandono totale.